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06/06/2023 15:34
Vincenzo Bertè avrebbe chiesto al custode del deposito di rifiuti di via Fermi di appiccare l’incendio. Dopo che questi si sarebbe rifiutato, allora avrebbe deciso di fare da solo. La circostanza è stata riferita durante l’ultima udienza del processo in corso a Pavia per il rogo avvenuto a Mortara nel settembre 2017. Un rogo che, secondo la nuova accusa riformulata dal tribunale, sarebbe stato innescato dal titolare dell’azienda, stretto dai problemi economici e dall’imminente controllo Arpa che avrebbe messo a serio rischio l’autorizzazione ambientale necessaria per continuare a lavorare. È stato proprio il custode del deposito, davanti al giudice, a riferire la circostanza in cui il suo titolare gli avrebbe chiesto di dare fuoco a tutto. L’ex dipendente ha affermato di essersi rifiutato di compiere una tale azione. Per la controparte, in attesa che Vincenzo Bertè torni a parlare in aula, rimane invece la versione da lui stesso fornita il 16 marzo scorso, quando l’imprenditore riferì che il controllo Arpa non lo preoccupava e che quindi non avrebbe avuto motivo per causare l’incendio. Resta da sottolineare il clima di omertà che ha avvolto la vicenda dal settembre 2017 all’estate 2019, quando l’ex moglie di Vincenzo Bertè, Sabrina Zambelli, decise di andare dai carabinieri e raccontare tutto ciò che sapeva. Una decisione presa in quanto, a suo dire, esasperata dalle vessazioni a cui veniva sottoposta dall’ex marito e dai suoi soci. Dopo di lei, anche alcuni ex dipendenti della Eredi Bertè svelarono particolari che, ribaditi in aula, stanno sostenendo l’accusa nel processo. Il giudice, però, non si è risparmiato nel far notare come queste testimonianze siano arrivate con quasi due anni di ritardo rispetto ai drammatici giorni in cui Mortara e parte della Lomellina venivano avvolte dal fumo proveniente dall’incendio al deposito di rifiuti di via Fermi.